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ricchezze, dopo avere eccitato gli animi al disprezzo de-
gli agi, chiamava ad uno ad uno i suoi ascoltatori, e divi-
deva con essi tutto intiero il guadagno del Quaresimale
e i pochi panni che gli restavano.
Senti questa. Giovanni stava dietro al pulpito, mentre
Don Antonio predicava un d sull Inferno. Dopo una
pausa, il Beato Antonio con voce rimbombante grida: 
Pentitevi, figliuoli, tornate nella via della virt; giacch
per voi, o perversi, che continuate a vivere nel peccato,
che state duri nel vizio, i sepolcri  e gridava sempre pi
alto, come ispirato dal cielo  i sepolcri si spalancheran-
no, e, precipitando sulle ossa degli antichi scheletri, nel-
la notte e nel gelo, sarete a poco a poco rosicchiati vivi
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dai vermi  . Allora Giovanni ud come un frusco, un
muoversi improvviso, ma sordo, lamenti soffocati, sin-
ghiozzi repressi. Guarda dal parapetto del pulpito, e ve-
de, cosa strana! nella chiesa, la quale prima era cos zep-
pa di gente, che una presa di tabacco  diceva Giovanni
tabaccone  non avrebbe potuto cadere in terra, vede il
pavimento nudo in larghi spazii, vede scoperte di popo-
lo tutte le grandi lapidi delle tombe. La gente, spaventa-
ta dalle parole del Missionario, s era ritirata dai sepolcri,
e, sempre in ginocchio, piangendo e picchiandosi il pet-
to, si pigiava, si schiacciava, si accatastava a gruppi, e
implorava sotto voce il perdono di Dio.
Di questi ritratti neri e di questi mobili tarlati tu non
sapresti che cosa fare.
Qui invece stanno bene, cos impietriti al loro posto.
Dopo tanti anni che le pareti, le masserizie, i quadri si
guardano, e forse nel loro linguaggio si parlano sommes-
samente, lo strappare qualcosa parrebbe un amputazio-
ne, sarebbe una crudelt. Quando i figliuoli di tua sorel-
la, diventati forti giovinotti, vorranno passare alcune
settimane cacciando sui monti, uccellando nelle valli o
pescando le trote rosee nel lago d Idro o nel Chiese, tro-
veranno intatta l antichit di questo palazzaccio. Si scal-
deranno al fuoco del caminone di marmo giallo, in cui
dodici uomini possono stare comodamente seduti; guar-
deranno i soffitti a travature sagomate e dipinte, e cam-
mineranno su e gi nella galleria dove, tra gli stucchi
sgretolati, il vento gavazza. Tu sentissi che musiche sa
comporre il vento in queste gole alpestri e in queste mu-
raglie rovinose: sono tripudii o spaventi, fischii lieti e
trilli e scale e accordi sonori e poi il finimondo, e sempre
continua il pedale, come dicono gli organisti, del romo-
re sinistro, che le acque del Chiese fanno nel loro letto
sassoso ed erto.
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Ho trovato, nipote mio, quel che ti devo lasciare.
una cosa che mi salv quasi la vita.
Prima che tu nascessi, i medici di Brescia e di Milano
mi avevano spacciato. Una maledetta malattia nervosa
del ventricolo s era ostinata a volermi spingere al mondo
di l, ed ero ridotto, per tutto pasto, a nutrirmi di pez-
zettini di cacio lodigiano che tenevo in bocca, e di cui a
poco a poco succhiavo la sostanza. Pigliai questo malan-
no, il primo e l ultimo della mia vita, cacciando nelle val-
li, quando, dopo avere mal dormito qualche ora in un
casolare, alle tre della notte mi alzavo, camminavo fino
alle sei in cerca del miglior sito della palude, con il fre-
schetto del dicembre o del gennaio ed una sottile umi-
dit che entrava nelle ossa, e poi dall alba al tramonto
mi piantavo immobile nell acqua e nella nebbia ad
aspettare una folaga, la quale molto spesso non voleva
mostrarsi. Mi scordavo di mangiare. Bevevo, io che sono
sempre stato mezzo astemio, de larghi sorsi di acquavi-
te. Vedi bestia che l uomo! Amando le montagne e le
balze, cacciarsi con tanta fatica e con s misero fine den-
tro ai pantani! Tornavo a casa, dopo qualche giorno, af-
franto, sfinito. La Menica mi dava brodi, petti di pollo,
latte di gallina, vino vecchio e il suo sorriso tutta bont;
ma io non avevo fame e digerivo male. Pensa che malin-
conia m era venuta addosso!
Non potevo uscire di camera: andavo dal letto al let-
tuccio. Se per caso giravo gli occhi allo specchio, veden-
do un coso allampanato con le guance smunte, gli occhi
spenti, il quale non somigliava affatto al mio signor io,
non sapevo vincere l ombra di un tristissimo sorriso, che
mi correva sulle labbra e si trasmutava tosto in due lagri-
me lente. Da quindici giorni, all aprirsi della primavera,
mangiavo, non ostante, un pochino di pi, dicevo qual-
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che parola volentieri, cavavo qualche accordo flebile
con meno stento dalla mia amata chitarra, la quale mi
stava accanto sul sof o sul letto. Quand ecco a un trat-
to, una sera, mi sento esinanire. La Menica si spaventa.
Era un gran pezzo ch ella non dormiva sotto le coltri,
non andava nel brolo a respirare una boccata d aria, non
faceva altro che starmi intorno sollecita, sempre attenta
ad un allegria fiduciosa e serena, che non le veniva dal
cuore, ma che ella simulava virtuosamente per il suo po-
vero infermo. Ell aveva pensato fino allora al mio corpo:
pens in quel punto alla mia anima.
Mezz ora dopo entr il curato e, sottovoce, mi chiese
s io volessi confessarmi. Gli occhi della Menica m im-
ploravano. La camera era buia, silenziosa, sepolcrale. Mi
confessai a spizzico, quasi senza fiato; ma non fu cosa
lunga, poich non credo in mia vita di avere mai deside-
rato male a nessuno. Toccai la mano alla mia buona in-
fermiera, che mi ringrazi con effusione angelica e mi
baci sulla fronte.
Mi sentivo sollevato. Il prete stava sempre in piedi a
sinistra del letto, duro duro, brontolando le sue preghie-
re. Negl infermi le impressioni son rapide come il lam-
po. Guardai fisso il volto del prete, e nell osservarlo pro-
vai dentro un irrefrenabile impeto di riso.
Bisogna che tu sappia come quel curato, uomo di
mezza et, rubicondo, tarchiato, panciuto, ottimo di
cuore, ma un po beone e mangiatore insaziabile, era il
pi gioviale matto di questa terra. Cantava certe canzo-
nette da fare sbellicare dalle risa, faceva certi giuochi di
prestigio con i bussolotti da maravigliare un mago, scri-
veva sonetti buffoneschi, imitava con la sola variet dei
fischi la predica del Vescovo biascicone e con la sola va-
riet delle inflessioni di voce tutte le lingue, compresa la
turca; faceva dietro una tela bianca le ombre chinesi con
le mani, figurando cigni, lepri, porci, elefanti, gatti e una
pantomima di burattini, in cui Arlecchino era innamora-
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to di Rosaura e bastonava Pantalone; finalmente con la
faccia rappresentava il temporale, agitando ora lenti, ora
impetuosi tutti i muscoli delle gote, del naso, della boc-
ca, del fronte, persino le orecchie, cos che pareva pro-
prio di vedere i primi lampi, di sentire il rombo dei pri-
mi tuoni, e poi via via crescere la tempesta e scrosciare la [ Pobierz całość w formacie PDF ]

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